PFAS, tracce anche negli alimenti: uno studio racconta una realtà preoccupante

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da Giovanni Cristiano

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Le sostanze perfluoroalchiliche o PFAS sono presenti anche negli alimenti. Uno studio svela uno scenario a cui stare attenti.

Le sostanze perenni, conosciute anche come PFAS, sono praticamente ovunque, anche nei prodotti alimentari. Per questo motivo bisogna conoscere la quantità di queste sostanze che arriva all’organismo delle persone che consumano i prodotti confezionati o in genere industriali.

PFAS alimenti studio
Rilevate tracce di PFAS negli alimenti – (Machedavvero.it)

L’alimentazione è un tassello fondamentale nella vita di ogni persona, ma non sempre gli alimenti riescono a fornire i giusti benefici all’organismo. In merito alle sostanze perfluoroalchiliche emerge una risposta dalla ricerca pubblicata su Environment International, nella quale si sono analizzati attentamente i partecipanti a due grandi studi di popolazione.

Il primo è stato definitivo Southern California Children’s Healty Study (CHS) e si focalizzava sui ragazzi ispanici, circa 120 giovani. Il secondo era il National Health and Nutrition Examination Study (NHANES), la grande indagine sulle abitudini alimentari e la salute degli americani. Qui lo studio ha riguardato circa 600 giovani.

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PFAS negli alimenti: i risultati preoccupanti dell’indagine

I ricercatori del test hanno chiesto ai partecipanti che cosa consumassero abitualmente, in particolare le carni processate, le verdure, il pane e le varie bevande, comprese quelle zuccherate, il tè e il latte. È stato chiesto anche quanto spesso mangiassero pasti o anche solo cibi preparati in casa e quanto, invece, frequentassero ristoranti e fast food, luoghi che presentano spesso il contatto con PFAS.

Indagine PFAS consumo tè
Lo scenario raffigurato dall’indagine – (Machedavvero.it)

Oltre alle risposte sui questionari, i ragazzi sono stati sottoposti ad un prelievo per poter dosare la quantità di alcuni degli PFAS più comuni. Nel caso dello studio CHS due volte, cioè all’età di venti anni e poi di nuovo a 24, mentre nel caso del NHANES a uno solo, a 19 anni.

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Tra i ragazzi del CHS che alla prima visita avevano confidato un significativo consumo di tè freddo, alla seconda avevano livelli di PFAS alti, in modo proporzionale alle quantità assunte. Ogni porzione di tè in più al giorno conduceva ad un incremento di oltre il 24% della concentrazione di PFHxS (acido perfluoro-esasulfonico), del 16% di PFHpS (acido perfluoro-eptasulfonico) e del 12% di PFNA (perfluorononanoico). Queste molecole fanno parte della categoria degli PFAS più moderni.

La conferma è arrivata anche sul versante opposto, quello sull’abitudine a consumare alimenti preparati a casa. Per ogni aumento di 200 grammi di cibo casalingo, la concentrazione di acido perfluoro-octansulfonico (PFOS) era inferiore dello 0,9% al primo controllo e dell’1,6% al secondo.

Le conseguenza dello studio sono diverse. In prima battuta, le due popolazioni di ragazzi hanno evidenziato delle abitudini omogenee, soprattutto sul consumo di alimenti industriali. Con il medesimo approccio, si potrebbe verificare cosa accade negli altri Paesi, così da identificare i prodotti più problematici.

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